Manuela Annibali, James Hopkins, 2008

Quanto piace al mondo è breve sogno.
—Francesco Petrarca

La bellezza dell’Arte è che non muore, pur spendendosi ogni giorno. Da questo ideale muove la ricerca iconografica di James Hopkins, raffinato artista inglese, acuto conoscitore dei principi formali, simbolici e prospettici delle immagini. Realizzando sculture e installazioni che giocano sull’equilibrio, sullo spazio e, soprattutto, sull’illusione ottica, sulla consapevolezza / inconsapevolezza della percezione e sui contenuti allegorici, Hopkins pressa i limiti della rappresentazione, avvalendosi di istruiti giochi linguistici e affrontando coscientemente concetti storico-artistici che affondano le radici nella più classica delle tradizioni. Attraverso una sorprendente associazione tra il canone classico della metafora e una produzione plastica di spiccato e contemporaneo sapore pop, egli rifugge dalle ordinarie leggi della logica e della comunicazione e ci invita a riflettere sulla mutevolezza e sulla instabilità della realtà moderna. Mistificando oggetti ed equilibri, l’artista sa rendere attuali iconografie artistiche datate, dunque, quali la vanitas e la natura morta.

Nella mostra, ogni opera è una meditazione sull’inevitabile senso di fugacità, di effimero, di temporaneo e inafferrabile legato alla natura umana e agli oggetti della quotidianità. La vanitas, da sempre, rappresenta lo sforzo dell’uomo per sottrarsi al suo destino di essere caduco, di durare una sola stagione, di produrre solo beni fugaci ed effimeri, e caratterizza la creatività. Questo tema riempie copiosamente le pagine dell’ideale repertorio dell’immaginario artistico e letterario.

E’ nel libro sacro Qoelet, presente nell’Antico Testamento della Bibbia cristiana come nella Bibbia ebraica, che appare esposto per la prima volta l’assioma, o monito se vogliamo, di Vanitas vanitatum, vanità delle vanità, categorica sentenza di come tutto non sia altro che cosa fatua. Sulla scia di tale fonte letteraria, i temi della morte, del passare inesorabile del tempo e della fine di tutte le cose sono stati affrontati nell’arte, con caparbietà già dall’antichità: un cranio e una farfalla (in greco la parola ‘farfalla’, psyce, significa anche anima) troneggiano in un mosaico rinvenuto a Pompei, così come scene di ‘danze macabre’, grotteschi girotondi di uomini e scheletri, appaiono in età medioevale come severo invito a condurre una virtuosa vita cristiana. La Vanitas in quanto genere pittorico autonomo si afferma però nel periodo della Controriforma, soprattutto in ambito Protestante e Calvinista, come caposaldo di una didattica moralistica, religiosa e filosofica tutta seicentesca. Nature morte con chiari elementi che alludono alla caducità della vita terrena — il teschio, la candela spenta, silenti strumenti musicali, la clessidra, l’orologio, le bolle di sapone, il fiore reciso, i frutti intaccati dai vermi —, con crudo realismo, affastellano le gallerie dei principali musei d’arte, ricordando anche al poco attento osservatore quanto effimera sia la vita terrena, con i suoi beni e i suoi piaceri tutti umani.Quasi completamente abbandonato durante il Secolo dei Lumi, il soggetto seduce successivamente artisti come Cézanne, Braque, Mirò, Ernst, Klee, Magritte, Dalì, Tyson, Warhol e Hirst, che, in epoca più moderna, ne ripropongono rielaborazioni del tutto inedite, spesso irriverenti e provocatorie.

Per James Hopkins, che ama sfidarsi con il passato, reinterpretando in chiave moderna, emozionante quanto dissacratoria, i classici codici linguistici dell’arte occidentale, l’arte si rivolge sempre, in primo luogo, ai sensi dell’osservatore; con un pathos teatrale, un illusionismo e una dinamica di forme, ogni lavoro vuole persuadere e stimolare la riflessione. Scuotere — anche attraverso soggetti sconcertanti — per diffondere contenuti ideologici: la massa di riferimenti all’iconografia storica è tale da risuonare come un’innegabile sentenza. Se in epoca barocca, il motto “memento mori” (ricorda che devi morire) ben rappresentava una società sprofondata nelle sue opprimenti paure esistenziali, frutto di conflitti sociali, di guerre e lotte di religione, in tempi recenti, in un mondo altrettanto scosso da conflitti politici, economici e religiosi, per Hopkins sembra essere arrivato il momento per forme sconcertanti e contrapposte: in tutti i suoi lavori, una esasperata ricchezza materiale si combina a una foga espressiva, una disinibita voluttà plastica si connette alla coscienza di una fine inevitabile.

Apre la mostra The Sands of Time, trasposizione tridimensionale lignea di una tipica natura morta del seicento olandese. Poggiati su un tavolo appaiono un violino, un libro, una bottiglia, una candela, una clessidra, una penna d’oca, tutti oggetti ritagliati da una vera bara di legno traforata che accompagna da sfondo il lavoro.

In Life Style Hopkins utilizza l’illusione ottica in maniera irriverente, dissimulando l’oggetto per criptarne il messaggio. Si tratta di una natura morta mascherata da libreria. Sugli scaffali sono poggiati oggetti di uso quotidiano (specchi, portariviste, bottiglie di liquore, un computer, una valigia, una scacchiera), che visti da lontano assumono un ulteriore ruolo figurativo: diventano i tratti riconoscibili di un teschio, che simboleggia appunto la fugacità della vita, monito sull’aspetto effimero dell’esistenza umana. Altrettanto critica è la moderna interpretazione della natura morta Arachnophonic, una chitarra squisitamente intagliata, i cui pezzi mancanti vanno a formare la sagoma di un ragno nero che sembra camminare sulle corde dello stesso strumento.

The Last Supper propone una pistola realizzata in carta, con le pagine ritagliate da una Bibbia illustrata, aperta sulla pagina della celebre rappresentazione dell’Ultima cena di Leonardo da Vinci. L’artista ha meticolosamente ritagliato centinaia di pagine dal testo sacro per ricreare un modello in scala 1/1 di un’arma da fuoco molto commerciale oggi, spesso utilizzata anche dai giovani per stragi tra coetanei.

Slammer è la rappresentazione di tre scaffali, sui quali sono allineate bottiglie di liquori, in atto di collassare. Il gioco di sospensione dell’azione crea straordinari effetti di ansia, di incertezza, di squilibrio, che rimandano precisamente allo stato confusionale conseguente all’assunzione di alcohol. Il declino delle aspirazioni è il messaggio che sottende a questo lavoro, severo richiamo alla condizione precaria dell’uomo contemporaneo.

L’inesorabile scorrere del tempo ci è ricordato acusticamente da Increased Time, un orologio da parete collegato a un amplificatore che scandisce — a tutto volume — il battito dei secondi, provocandoci un profondo senso di disagio. Ascoltare tali martellanti rintocchi ci riempie la testa e non possiamo fare altro che pensare ai momenti che fuggono via.

Nel completo rispetto del soggetto del memento mori, nel quale, come diceva Argan, “la presenza o emergenza delle cose implica l’assenza degli uomini”, Hopkins bandisce la figura umana, la abolisce: ciò che resta è l’arte, forse unico atto senza peccato mai fatto dall’uomo.

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